Cosa c’è dietro la fatica?

I Rams nati nel 2007 sono partiti da una formazione di 6 ragazzi che si ritrovavano a correre chiedendosi cosa facevano dopo che la squadra risorgeva da più di dieci anni di oblio. Non sapevano al primo allenamento cosa stessero facendo, ne forse riuscivano a intravedere l’immagine che io oggi tutti i giorni d’allenamento ho sotto gli occhi, cioè una squadra da un centinaio di persone tesserate e una sessantina di giocatori fra under 21 e senior. Noi non siamo professionisti pagati, ma ci consideriamo, come dice il nostro preparatore atletico, atleti agonisti. Agonisti perché ogni settimana ci alleniamo e ammazziamo di fatica per poter poi competere la domenica, mettendoci al confronto più che con l’avversario con noi stessi; atleti perché usiamo le nostre doti atletiche, le alleniamo, le portiamo al limite sforzandoci di migliorarle. Mi è capitato più volte alla fine di una partita sfiancante, magari sotto la pioggia, nel fango e al freddo, di chiedermi: “Ma chi me lo fa fare?” risposta che costantemente rimane senza risposta perché più concentrato sulla doccia imminente che nella meditazione. E’ difficilissima la risposta. Penso che se si potesse rispondere a questa domanda allora si avrebbe la chiave per poter fare e far fare al prossimo qualsiasi cosa, in quanto conoscere cosa alimenta il fuoco ci può permettere di controllarlo a piacere. Conoscere cosa porta l’uomo ad accettare o meno una certa fatica è sempre stato un problema cruciale, ad esempio a livello lavorativo. Durante la seconda rivoluzione industriale si pensava che l’uomo fosse a priori contrario alla fatica, e perciò andava strettamente controllato e costantemente punito nel caso non svolgesse le sue semplici mansioni. Successivamente alcuni psicologi osservarono che l’uomo può anche accettare di buon grado la fatica, basti pensare ai nostri sforzi sul campo d’allenamento o a quelli per imparare a suonare uno strumento. Da li cambiò completamente la visione del mondo del lavoro: se l’uomo non odia la fatica allora basta trovargli una mansione che gli piaccia, e si cominciò quindi a selezionare gli uomini in base anche a quello che potevano svolgere con maggior gusto, diminuendo quindi l’affaticamento e aumentando la produttività.
Tornando alla nostra domanda iniziale, cioè cosa ci porta ad ammazzarci di fatica sul campo, io penso che la risposta sia: i nostri obiettivi. Le direzioni che diamo alla nostra vita sono sempre determinate dagli obiettivi che ci poniamo, e se per caso è un nostro obiettivo vincere il super bowl e davvero lo vogliamo allora faremo qualsiasi sforzo e accetteremo qualsiasi fatica per ottenerlo. Allo stesso modo oggigiorno gli sforzi per aumentare la produttività a livello lavorativo sono tutti incentrati sulla condivisione dell’obiettivo aziendale fra i dipendenti, perché esattamente come nel football americano è solo nel momento in cui l’azienda riesce a trasmettere al lavoratore il senso della quest che si avrà la sua massima spesa di energia. E’ da qui che partono (o dovrebbero partire) tutti gli sforzi che vogliono rendere “piacevole” il lavoro. In una squadra in cui l’unico obiettivo dei giocatori è fare il punteggio più alto di statistica, si avrà il fallimento completo, perché ciascuno andrà nella sua direzione; se invece lo scopo è vincere il campionato il target sarà unico per tutti, ed è assicurata la massima spesa di energia in quella direzione. La ragione per cui il football dei college americani è così più bello di quello dell’N.F.L è che quei ragazzi lottano e spargono fino all’ultima goccia di sangue perché il loro unico obiettivo è dare il meglio di se stessi per far fare bella figura al proprio college e ottenere il massimo dei risultati. Vedi quindi un entusiasmo, una forza e uno spirito combattivo che fra i corridori della lega nazionale non c’è. Purtroppo il discorso sulla necessità dell’allineamento degli obiettivi nelle organizzazioni soprattutto lavorative non è per nulla chiaro. Troppo spesso si sente al telegiornale di situazioni lavorative ai limiti della legalità e sopportazione, tanto che non c’è da meravigliarsi della bassa produttività, della distrazione e quindi degli incidenti; questo avviene perché gli obiettivi di imprenditore e lavoratore non sono allineati e ancora oggi c’è chi ancóra si áncora a convinzioni degne del fordismo. Non mi meraviglia che infatti in aziende come la Google si vedano cose come il regalo di giornate di ferie a chi contribuisce con idee innovative, corsi regalati di golf e teatro nel dopolavoro e frequenti premi aziendali: è forse un caso che sia prima nei rankings sulla qualità aziendale e nel contempo la società con i fatturati più alti del web nel mondo
Il Pensiero di HP
di Dario D’Ambrosio