Rams Around the World – Enrico “Enricuzzu” Nunnari – La mia Milano

Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con Milano, chi mi conosce lo sa. Nei miei oltre dieci anni vissuti all’ombra della Madonnina non riuscivo a sentire mia la città. Ci trovavo molto dell’aspetto cosmopolita e poco di quello milanese vero. Per uno come me che, in qualsiasi parte del mondo, tende sempre a trovare il tipico – che sia una locanda nei vicoli di Marsiglia o degli autoctoni ad Haiti – era un problema.

Per questo, quando arrivai al Saini tanti anni fa, ne rimasi ammaliato. Paolo via email era Paolo, non ancora Big ma di milanese per me trasudava già tutto… la storia, la tempra e il monito “qui giochiamo a football, mica a te ghe’he lée” (antico gioco meneghino praticato dai bambini che dovevano toccarsi e scappare… in pratica l’antitesi del football nostrano).

Negli anni i Rams hanno significato tanto, a volte quasi tutto. La salvezza di ogni giornata andata storta, l’apoteosi di quelle felici. Sono riusciti a concentrare tutte le emozioni descrivibili, dalla gioia alla frustrazione, passando per la resilienza che ti permette di rinascere ogni volta. In sette anni ho visto passare centinaia di giocatori, alcuni di cui non ricordo più il nome, altri tutt’oggi fratelli. Ma soprattutto ho visto passare tanti me, per quanto assurdo possa sembrare. Sempre con la stessa maglia ma con qualcosa di diverso sotto il casco.

Ero alla ricerca disperata di adrenalina e di quello che mi mancava in quella città che all’epoca era casa mia in senso lato. Fin quando arrivò quella sera. Primo anno, uno di quegli allenamenti che potevano essere l’ennesimo come l’ultimo. Giocavo outside linebacker (mio ruolo originario prima di passare definitivamente a cornerback, con una parentesi in linea a causa di qualche arancina di troppo) e quella sera stavo sbagliando tutti gli schemi. Erano ormai le dieci, non vedevo l’ora di fare l’ultima azione e porre fine a quello strazio ed infatti l’eseguii malissimo. Big esplose, corse dalla sideline e mi venne a strattonare violentemente la maschera urlandomi in faccia che se non avevo voglia avrei potuto tornare a casa. Intorno calò il gelo. Non mi diede tempo di rispondere, urlò all’attacco di schierarsi ed eseguire esattamente l’ultima traccia. Poi ordinò al resto della difesa di restare immobile e a me di fare il mio compito al centodieci percento. Mi parve surreale ma non ho mai fatto scene in campo – obbedii. Snap del centro, mi staccai per coprire la tasca e poi stringere sul quarterback ma il tackle offensivo mi rallentò e il quarterback lanciò bene. Pensai “bene, ora sotto la doccia” ma Big urlò prepotentemente “ANCORA!”. Tornai al mio posto lentamente, vergognandomi come un ladro e domandandomi il perché di quella che percepivo come umiliazione. Mi misi in stance, piede interno verso l’azione, alzai il casco e all’improvviso mi si accese la luce. 

Il Saini mi pareva immenso e allo stesso tempo a perfetta misura mia. Guardai negli occhi una per una tutte le linee di attacco, il quarterback, i runningback, i ricevitori. Dietro le maschere c’era gente che aveva fatto anche dieci ore di lavoro o università, prima del campo. Erano ormai le dieci passate, saremmo dovuti essere già tutti in spogliatoio ma nessuno fiatava, nessuno mostrava risentimento. Sapevano che avrebbero ripetuto più volte la stessa traccia solo per fare eseguire a me il movimento corretto. Avevo tutti i Rams al servizio dell’ultimo arrivato. Per citare una filosofia del judo, tanto caro a Big, era quello che si chiamava “ji ta kyio ei”, insieme per progredire. Questa sensazione mi sconquassò.

Eseguii la cosiddetta tasca meglio, usando le braccia per allontanare il blocco. Tornai in posizione senza che lo ripetesse Big di nuovo. La eseguì di nuovo, veloce, potente, arrivando sul quarterback prima del lancio. Lui mi sorrise. Mi girai verso Big, lo vidi buttar giù le spalle in segno di ritrovata serenità. Sorrise anche lui e chiamò l’huddle finale. Non potrò mai descrivervi quello che provai in quei dieci minuti e che invece il mio stomaco ricorda benissimo.

Quella sera capii che erano i miei Rams. Che quella si, era la mia Milano.

Sono passati tanti anni da quella sera, tanti allenamenti, tante partite, tante sconfitte prima e tante vittorie dopo. Il mio ruolo è cambiato ma la mia determinazione no. Agiva come paraspalle solidissimo di una consapevolezza interna che mi faceva maturare come uomo. E Big stava sempre la.

Big c’era quando mi fratturai il dito, medicandolo a casa sua.

Big c’era al primo sack contro Novara.

Big c’era quando persi mio padre, con una sensibilità che prima di allora non avevo conosciuto.

Big c’era quando persi me stesso e lui mi convinse che avevo palle a sufficienza per giocarmi la finale di campionato.

Big c’era quando alzammo i trofei.

Big c’era in Texas quando mi mostrava come un padre orgoglioso agli altri allenatori mentre mi allenavo in palestra prima della convention AFCA.

Big c’era quando gli spiegai (contro il suo parere) che a fine carriera l’allenatore non avrei voluto farlo perché in qualche modo mi sentivo ancora uomo d’azione.

Big c’era quando gli dissi che quella contro Cremona sarebbe stata la mia ultima partita prima del trasferimento a Roma.

Big c’era, sempre.

Oggi a Roma, dopo altri tre anni di intercetti e placcaggi in un’altra splendida famiglia come la Legio XIII, che ha accompagnato il mio ritiro dopo un decennio footballistico, mi ritrovo a pensare a che uomo sarei stato senza quegli insegnamenti. Nella palestra di arti marziali che dopo essere stato il mio passato giovanile ormai è il mio presente e il mio futuro, mi trovo immerso in diverse emozioni. Fuori c’è un’altra città, Milano è lontana ma io ho una capacità di auto-disciplina mentale e controllo del corpo che spesso sono motivo di stupore dei miei maestri. Non per me. Lo so mentre aggiusto i piedi per tornare in posizione. Anche li spesso è una questione di avere il culo basso, la testa alta e i piedi sulle punte.

E dentro sento quella voce che mi dice “Bravo, hai capito che non è te ghe’he lée”.

Enrico Nunnari – Rams #56

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