6. Il lavoro è gioco
Nel suo viaggio alla ricerca delle determinanti del successo Anthony Robbins annovera come sesto comandamento “il lavoro è gioco”. “lavoro” è una parola importantissima, assolutamente scottante da ogni punto di vista, che costituisce il nerbo della vita di ognuno di noi che necessita ogni giorno di lavorare che lo voglia o meno. Il punto su cui insiste Robbins, da buon americano, è che nessuno ha ottenuto grandi successi facendo un lavoro che detesta e che la chiave per sfondare sia un perfetto matrimonio fra ciò che si ama e ciò che si fa, nello stesso spirito di Mark Twain che diceva che “il segreto del successo consiste nel fare della propria vocazione una vacanza”. Questo, siamo sicuri, è lo spirito che avevano grandi realizzatori come Steve Jobs o Abramo Lincoln, icone dell’uomo realizzato, del “self-made” man che se vogliamo è uno degli oggetti di questo libro e di sicuro uno dei miti della mentalità americana. E’ proprio in questo però che secondo me stanno le pecche del suo pensiero e, nello stesso tempo, anche gli aspetti vincenti.
Uno degli aspetti che non condivido, alla base invece del pensare di questo libro e della mentalità americana, è l’idea che il lavoro sia funzione solo e unicamente di noi stessi, che cioè si possa sempre e in ogni modo con passione, energia e tutto quello di cui ho parlato negli articoli precedenti trovare e praticare il lavoro dei propri sogni. Il lavoro è gioco quando hai la fortuna di appassionarti per quello che in parte ti sei costruito, ma che anche in parte ti viene offerto dalla società in cui ti trovi. Non è solo e unicamente nostra la responsabilità di individuo realizzato, ma anche del contesto sociale in cui siamo inseriti. E’ per questi motivi che assumono un senso ignoto per gli americani tutte le forme di assistenzialismo che via via, nei decenni di lotte per i diritti dei lavoratori, sono state guadagnate in Italia e in generale nel sistema Europeo. Un lavoratore viene licenziato da un giorno con l’altro in America perché non ha rispettato gli obiettivi assegnategli: tutto bene. Un operaio viene licenziato senza nessun sussidio residuo perché la fabbrica chiude: accettabile. Un impiegato viene licenziato da un giorno con l’altro perché in una giornata storta in cui tutto andava male ha risposto male al superiore: inaccettabile. E’ un tipo di mercato del lavoro molto flessibile, che appunto sprona alla lotta per la sopravvivenza, seleziona solo i migliori, quelli che appunto Robbins chiama “realizzatori”. E’ giusto? No. E’ sbagliato? No. Come sempre la verità sta nel mezzo. Una volta che infatti sono assicurati i diritti di base che tutelano il lavoratore e che gli danno la possibilità sempre e in ogni caso di scegliere, è necessario che intervengano dei meccanismi di selezione in maniera non meno forte che in America. Questo purtroppo, in Italia, non sempre è vero, lo dimostrano ogni giorno i quotidiani che parlano di quel retaggio che purtroppo ci rende “mafiosi” nel resto del mondo, cioè tutto il sistema di favoritismi, raccomandazioni, gare d’appalto saltate e lavori procurati, pensioni d’invalidità rubate e mazzette elargite. Dov’è qui la competizione per la sopravvivenza? Dov’è la conquista del terreno? Per quale motivo dovremmo cercare di insegnare a dei ragazzi l’importanza del conquistare il terreno quando poi sembra siano altre le abilità necessarie? Eppure i Rams perseverano nella loro missione, cioè quella di insegnare il valore del sacrificio vero, quello per cui ho la possibilità di giocare in partita non per tre minuti ma per un quarto e nella prossima per tre quarti perché mi sono impegnato agli allenamenti e sono migliorato. Sarebbe bello poter dire “la chiave del successo è considerare il proprio lavoro come un gioco” e di conseguenza “trovati un lavoro che sia tale”, ma purtroppo non è possibile, perché tanti sono i problemi, sia all’interno di noi che all’esterno. Noi, però, abbiamo cominciato a lavorare in questa direzione e lo facciamo, come oramai è mia abitudine dire, ogni martedì e giovedì sulla terra del Saini.
Il Pensiero di HP
di Dario D’Ambrosio